martedì 22 febbraio 2011

Speciale Pratilia

"Poche volte nella mia vita ho acquistato d’impulso qualcosa di tanto costoso: eccola qua, una bella macchina del tempo tutta nuova, scintillante e cromata. Ormai si compra tutto, basta sapere dove cercare. L’unico scopo di questo acquisto è soddisfare un vecchio capriccio: rivedere la mia adolescenza e la mia infanzia. Si tratta di tornare indietro nel tempo di circa 70 anni, fino agli anni ’80, ma non è un problema.
Voglio ricordare i gusti ed i sapori della Prato di allora, e vedere se sono gli stessi di questo 2050, buio e senz’anima. Con un semplice tocco di una leva, potrei anche andare avanti nel tempo, ma ovviamente non mi interessa conoscere il futuro: a più di 80 anni vedere il proprio futuro non avrebbe molto senso. La macchina è particolare: mi muovo su una sorta di tribuna dalla quale vedo senza essere visto, per cui non interferisco in alcun modo con le vicende passate.
Parto dunque, non senza qualche esitazione e paura. Giro la leva del tempo, un paio di scossoni e mi ritrovo ad una settantina di anni fa, in mezzo ai suoni ed ai rumori degli anni ‘80.
Rivedo subito mio padre al lavoro tra i suoi telai. Come tanti della mia epoca, sono figlio di un tessitore che ha passato la sua vita tra pezze, subbi e rocche di filato, tutte cose che oggi non sono nemmeno più nei musei. Rivedo le sue giornate scandite dal rumore delle infernali macchine con le loro spolette che andavano su e giù. Adesso il rumore ed i telai non ci sono più: Prato oggi vive di turismo, ma allora la città era caratterizzata dai tanti maglifici e lanifici industriali (anche in pieno centro in mezzo alle abitazioni) e dalle piccole “api” dei terzisti. Aprivi una finestra ed eri sicuro di vedere nel giro di pochi minuti l’ape di un tessitore carica di pezze e subbi.
Mi rivedo andare allo stanzone di mio padre, specialmente d’estate, quando le scuole erano chiuse: era una festa per me quando mi portava al lanificio, da “i’ssanesi” come lo chiamava lui, a prendere le tele per il lavoro.
Le cose da fare prima di partire erano tante e strane ai miei occhi di bambino. Caricare il subbio vuoto sull’ape, le casse con i conetti vuoti per il filato, quelle con le fila di scarto (la cimosa), scrivere la mitica e fondamentale “bolla di accompagnamento” che tante volte ha fatto litigare mio padre con quel blocchetto.
Arrivati al lanificio, c’era da scaricare tutto quello che si era caricato. Ma prima era necessario passare negli uffici per fare altre cose per me incomprensibili: scrivere in quelle macchinette calcolatrici che mi piacevano tanto e nei primi computer che si usavano allora. Poi dovevi ricaricare il lavoro, il tuo pane e la tua maledizione: il subbio con la tela da tessere e le casse, stavolta piene di rocche di filato. Dovevi cercare il colore giusto del filato: mi ricordo degli enormi magazzini e la fantasia dei magazzinieri per ricordarsi quelle centinaia di colori. Cercavi la roccia di marte, il verde erba di montagna, il rosso tramonto di bali, l’autunno, il mare in tempesta, ed altre rocche con nomi anche più fantasiosi.

Mi sono lasciato andare a ricordi troppo personali: vediamo invece l’ambiente nel quale sono ritornato, senza indulgere in questi dettagli. Mi riconosco ragazzino degli anni ’80, con il mio piumino Moncler e con le mie scarpe Timberland (finte, perché quelle vere non me le potevo permettere). I primi ricordi della città sono quelli dello struscio pomeridiano dei giorni di festa: prendevo l’autobus da casa alle 3 del pomeriggio, la linea 16, e scendevo in Piazza delle Carceri. Il ritorno era sempre verso le 7 con la linea 15 che andava verso Paperino o con la linea 21, a seconda della voglia del momento.
Non c’erano gli avveniristici autobus parlanti di adesso: c’erano invece vecchi autobus arancioni funzionanti a gasolio e piuttosto scomodi, con delle buffe seggioline strette e grigie, il posto per il bigliettaio in fondo alla macchina, e le porte che si chiudevano a soffietto con la gomma che separava le due ante. Rivedo gli autisti dell’epoca, più sorridenti e distesi di quelli attuali: sicuramente c’era meno traffico e meno isterie di adesso. Ed ecco anche le macchine posteggiate un po’ a casaccio nelle piazze cittadine: non c’era grande simpatia per le cause ecologiste e per le zone a traffico limitato.
Rivedo tanti negozi e spazi che adesso non ci sono più. Prima tra tutte la famosa “Bata”, negozio di scarpe in piazza Duomo, davanti al quale per anni ed anni si sono ritrovati tutti i pratesi (ragazzi e non). “Alle quattro alla Bata” si diceva, e davanti al negozio quando apriva c’era sempre la fila, ma non di clienti, bensì di persone che si ritrovavano lì per il loro struscio pomeridiano. Tra questi sicuramente c’è qualcuno che nel negozio della Bata non ci sarà nemmeno mai entrato.
Dove andavamo? Dal finestrino della mia macchina mi rivedo dirigermi verso le mete di allora: eccomi al “pizland” in Piazza San Domenico (c’è ancora ma con altro arredamento ed altri gestori), un localino dove facevano la pizza a taglio più economica della città e dove c’era poca gente. Immancabile la puntata alla sala giochi di via Tinaia, ormai chiusa da anni, dove incontrare le ragazze (non esistevano le chat, Internet e roba varia). La sala giochi cittadina apriva alle 9 di mattina per accogliere i ragazzi che facevano “forca” a scuola e chiudeva la sera tardi. Mi ricordo le interminabili partite a “Moon Car” o a “Don KeiKong”, o le sfide su un primitivo e unto tavolo da biliardo. E allora le partite costavano 200 lire, quanta nostalgia!
Adesso è domenica pomeriggio e mi riconosco in mezzo a tanti altri coetanei, tutti vestiti secondo la moda del tempo, mentre sto andando in una delle due discoteche cittadine, lo Zero6 in Via Strozzi ed il Pacha a Pratilia. Il primo frequentato da persone un po’ alternative, il secondo da quelli che erano un po’ più tirati. Io cercavo, peraltro con scarso successo, di rientrare nel secondo gruppo.
Rivedo anche Pratilia il primo centro commerciale nato in città. Sorvolo le file delle auto che si allungavano il fine settimana sulla declassata (allora senza rotonde e sottopassi) per visitare quel paese dei balocchi. Tre piani di negozi scintillanti, due emittenti televisive, un grande supermercato, un fast food (quando i Mc Donald’s erano ancora lontani dall’arrivare), una piscina e due campi da tennis sul tetto. Adesso è rimasto un triste rudere cadente, simulacro dei fasti passati e simbolo della decadenza di tutto. I giovani non immaginano la vitalità e l’entusiasmo che all’epoca circondavano quel luogo. Ci si passava le giornate ed alle volte “rischiavi” di incontrare qualche personaggio televisivo del tempo, più o meno famoso. Rivedo anche quegli adesivi particolari (e un po’ bruttini) con il logo del centro commerciale che la gente attaccava sulle proprie macchine. Dall’autoradio della mia macchina del tempo (sintonizzata sulle stazioni gracchianti degli anni 80) spunta anche la musichetta stranissima della pubblicità “Pratilia, lo shopping center”.
I ricordi degli anni ‘80 mi stanno sopraffacendo: dalla radio esce ora la musica di “Radio Prato 103.550” e la voce metallica di Jack Lombardo che legge i risultati delle partite di Serie C. Ecco, è cominciata la partita, lo stadio cittadino è pieno, c’è un uomo con la voce arrochita dalle sigarette e dal freddo di tante trasferte che racconta al microfono le partite di una squadra con le maglie bianche e blu. E ci sono i tifosi che dalla curva scandiscono i nomi dei giocatori e sfottono gli avversari. Che differenza con oggi, e che tristezza: la squadra c’è ancora (anche se gioca in campionati sempre più infimi e squallidi), ed anche lo stadio. Manca tutto il resto: l’entusiasmo, il pubblico, il tifo, il radiocronista, la radio. È rimasto solo il presidente, anzi, il nipote del presidente di allora. Basta, cambiamo stazione!

Torniamo in centro per un ultimo giro? Perché no? La benzina sta per finire ma con un piccolo tocco della leva del tempo mi rivedo davanti ad un cinema cittadino. Non ci sono ancora le gigantesche multisale che adesso anche a Prato sono state costruite. Sono davanti al cinema Excelsior: è il giorno in cui ho visto il mio primo film da solo una domenica pomeriggio, “Rocky IV”, è il 1984.
Non so come, riesco ad entrare con la macchina del tempo in quella sala stracolma. Mi vedo, sono lì, in piedi in fondo, i posti a sedere sono tutti esauriti, la gente è stipata per ogni dove: nel corridoio centrale, sulle scalette, in fondo sala… anche due per seggiolina, cosa assolutamente impensabile oggi. Allora però non esistevano le norme sulla sicurezza e non ci si facevano tanti scrupoli: la gente vuole entrare? Via, tutti dentro!
Decido allora di rivedere e di ricordarmi tutte le sale cinematografiche dell’epoca, così artigianali e ormai “fuori moda”. Le sale pratesi erano tante: l’Astra al soccorso, il Corso Cinema (massima trasgressione di noi ragazzini: un cinema porno in pieno centro !) prima tramutato nel Cristall e poi tristemente chiuso, il Centrale, che adesso ospita una libreria, il Controluce, parrocchiale chiuso per mancanza di fondi e per impossibilità di adeguarlo alle nuove normative, un cinema al Cilianuzzo, anch’esso parrocchiale ed ora chiuso.
Mi rivedo poi al cinema parrocchiale a Poggio a Caiano dove mi portava spesso mio padre. Questo sì che era veramente spartano, con la biglietteria accanto al bar del circolino e la sala separata dal resto del locale con due tendoni scuri che dovevi spostare per entrare. Chiaramente i tendoni proteggevano dalla luce del bar ma non dai rumori, quindi mentre vedevi il film (la domenica pomeriggio mi ricordo che c’erano più che altro film per ragazzi, erano gli anni 80) spesso arrivavano i suoni del biliardino o della macchina del caffé. Le sedie non erano quelle avveniristiche ed ergonomiche poltrone di adesso, ma semplici seggioline con la parte inferiore che si alzava ed abbassava cigolando. In sala non si poteva fumare, ma si fumava nel bar e subito fuori alla biglietteria, quindi il fumo arrivava anche in sala, come se volesse vedere il film anche lui. E nessuno ci faceva grande caso: sui pacchetti non c’era scritto “il fumo uccide”, pochi si preoccupavano delle conseguenze.
Il bello di quel periodo e di quelle sale era che potevi entrare anche a proiezione iniziata, senza che nessuno ci facesse caso: anzi, era la regola! Ho diversi flash di film nei quali sono entrato dopo l’inizio, a metà primo tempo, ad esempio. Lo spettacolo era alle 15, ma se arrivavi un quarto d’ora dopo potevi entrare ugualmente. Era simpatico perché dovevi vedere l’inizio alla proiezione successiva: vedevi prima il finale ma non capivi le premesse. Quindi dovevi aspettare la fine, vedevi le persone cambiare e dovevi cercare di capire il punto in cui eri arrivato, ricollegando le fila del film. Paradossalmente un film potevi vedertelo anche quattro volte in un giorno… Oggi non è più possibile, perché “è vietato entrare in sala a proiezione iniziata”.

Sto sognando lo so, forse mi sveglio tra un po’, mi dico mentre manovro la leva della macchina del tempo. Eppure, qualcosa non è cambiato: i caratteri della nostra città sono gli stessi di sempre, non c’è differenza dai tempi di Malaparte.
Annuso l’aria come i segugi, e sento che c’è qualcosa che lega passato, presente e futuro: il tramontanino pratese che scende dalla Calvana e ti taglia gli orecchi nelle giornate di autunno e di inverno, il rumore cadenzato dei telai (anche se ormai sono quasi spariti), i vecchietti seduti in piazza del Comune sotto la statua del Datini, che conferiscono alla città un’aria da paese, i biscotti del mattonella, le paste di piazza Mercatale dopo la discoteca, i sensi unici che cambiano un giorno sì e l’altro anche (facciamo apposta per fare impazzire i fiorentini!!), i paesi e le mille parrocchie in cui ci dividiamo, facendoci beffe dell’Europa unita (a Galciana, paese di 5.000 abitanti, ci sono due parrocchie, altro che Unione Europea), il Mazzoni in piazza del Duomo, “con quel suo cappotto di marmo” che va bene per tutte le stagioni.
E poi ci sono i pratesi, che dicono del capoluogo regionale, insieme al Malaparte, “mi fa l’idea di un can fuor dall’uscio”. I pratesi, sempre citando il Nostro, “con quegli occhietti spregiosi” che ti guardano e ti sfidano a dir loro una bischerata; il loro carattere schietto e da prima donna, sempre protagonisti. Il pratese che puoi riconoscere anche all’estero per via del suo accento sguaiato ed unico rispetto agli altri accenti toscani, e che agli zii o nipoti di America manda l’olio delle colline ed il vino di Carmignano, oppure i soliti biscotti del mattonella o il filone.

Sento un suono insistente, non è la benzina che è finita, è invece la radiosveglia… è tempo di svegliarsi!
Mi accorgo che veramente è stato tutto un bel sogno. Non siamo nel 2050, né negli anni ’80, siamo nel 2006, la dura realtà. La macchina del tempo, scintillante e cromata non c’è più: si è trasformata come per maleficio nella radiosveglia che suona implacabile.
Sono le 7,30 è ora di andare al lavoro, altro che anni ‘80!"

spetr72

Una lettera davvero fantastica trovata in rete...

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